Essere Chiesa sulla soglia
Stare sulla soglia significa essere accogliente, discreto e disponibile. Questa è l’immagine di Chiesa che
suscita l’espressione “Chiesa sulla soglia”. In concreto, ciò dovrebbe significare che la Chiesa deve, prima di
tutto, ascoltare e saper ascoltare senza far sentire giudicato nessuno. Dovrebbe essere casa per coloro che
si sentono o sono esclusi, anche dagli “uomini e donne di Chiesa”.
Inoltre dovrebbe riscoprire il suo ruolo aggregativo, come lo era quando non c’erano altri luoghi di incontro
o di svago, se non gli ambienti della parrocchia. Ovviamente trovando delle strategie nuove, perché ora i
luoghi di incontro e di svago ce ne sono in abbondanza per chiunque. Un modo potrebbe essere quello di
organizzare pasti insieme per gruppi di persone (famiglie, giovani, utenti Caritas, ecc.): in fondo Gesù
evangelizzava per strada e a tavola e la dimensione della convivialità potrebbe essere un gancio per
(ri)avvicinare quelle persone che sono ai margini della vita parrocchiale, ma che la incrociano in momenti
significativi (catechismo dei figli; corso prematrimoniale; ecc.). L’obiettivo dovrebbe essere quello di
mostrare una Chiesa che non è solo dispensatrice di servizi, ma luogo in cui tessere relazioni con persone
che altrimenti non incontreresti.
Relazioni radicate nella fiducia in Dio e nella gratuità, autenticità e carità
Le persone possono aprirsi alla relazione con Dio se incontrano altri – i fedeli – che già vivono questa
relazione e, in forza di questa, sono loro per primi capaci di relazionarsi tra loro e con gli altri con gratuità,
autenticità e carità. Una comunità di persone che sa accogliere l’altro – il “diverso” secondo gli stereotipi
comuni – senza farlo sentire giudicato, qualunque sia la sua condizione, è il giusto modo per presentare un
Dio che non chiede nulla, ma dona tutto, che sa fare verità, ma nella carità e con misericordia.
Favorire la corresponsabilità attraverso percorsi condivisi per essere sempre più partecipi della comunità
I temi emersi da tutti sono due: la mancanza di clero nelle parrocchie; e la situazione dei giovani.
Rispetto alla prima questione, la diminuzione del clero inizia a farsi sentire, anche se, invece di suscitare un
impegno maggiore da parte del laicato per mantenere comunque attive le comunità, sembra che ci si
lamenti solo di questa mancanza. Si ha ancora l’idea che è il prete che deve fare tutto ed essere sempre e
comunque presente ad ogni attività parrocchiale. Sono pochi coloro che sono capaci di abbandonare tale
modo di pensare e si rendono disponibili ad un impegno più attivo. D’altro canto, però, gli impegni familiari,
scolastici e lavorativi non permettono di dedicare il tempo adeguato alla vita parrocchiale, condividendo in
prima persona la responsabilità diretta della vita della parrocchia. Ci si può dedicare di più solo dopo il
pensionamento, ma a quel punto inizia a venire meno la “freschezza del pieno dell’età” e, comunque, si dà
sempre l’immagine di una comunità cristiana corresponsabile formata solo da persone “di una certa età”.
Per quanto riguarda la presenza giovanile in parrocchia, gli stessi (pochi) giovani presenti e attivi nella
comunità parrocchiale manifestano la difficoltà che loro stessi hanno di coinvolgere i loro coetanei nelle
attività parrocchiali e ciò crea in loro un senso di spaesamento.