Quando ho ricevuto la telefonata del Vescovo, il quale mi chiedeva di intervenire al Convegno diocesano per illustrare il tema della sinodalità, confesso che mi sono commosso. Sapevo che la partecipazione alla Conferenza stampa indetta dalla Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi per spiegare il Documento preparatorio avrebbe comportato una moltiplicazione di chiamate nelle diocesi, in relazione all’apertura del Cammino sinodale. Non pensavo che mi sarebbe toccato intervenire anche al nostro Convegno diocesano: «Nemo propheta in patria».
Lo faccio con semplicità, raccontando soprattutto un’esperienza di cammino dentro un territorio sconosciuto per tutti. Nella riunione della Commissione teologica, in margine all’apertura del Sinodo a Roma, lo scorso 10 ottobre, un teologo del calibro di Gilles Routhier diceva: «Qui siamo tutti apprendisti». In effetti, si sta aprendo una stagione nuova della Chiesa, che suscita sentimenti contrastanti: di coinvolgimento da parte di molti in questo scenario sinodale; di perplessità quando non di rifiuto da parte di altri, per il timore che si tratti della solita operazione di facciata, o addirittura del tentativo, da parte di gruppi di potere nella Chiesa, di imporre un’agenda o di modificare la natura della Chiesa. Non pochi giudicano questo passaggio ecclesiale una “moda” introdotta da un papa latino-americano, che rischia di far scivolare la Chiesa in una deriva populista.
La Segreteria del Sinodo ha registrato più di qualche paura di vescovi, i quali temevano che una “consultazione del Popolo di Dio” potesse implicare la trasformazione della Chiesa in una democrazia. D’altra parte, sui social sono attivi gruppi – non solo della galassia tradizionalista – che insistono fortemente tra la sinodalità e le posizioni progressiste, che vorrebbero mettere in questione «i valori non negoziabili» della dottrina cristiana. Per quanto si debba riconoscere che esistono gruppi del genere, che stravolgono concetti e pratiche ecclesiali per raggiungere i loro scopi, non è questo il senso del Cammino che la Chiesa universale ha appena aperto e che le Chiese che sono in Italia realizzano dentro quel percorso sinodale, almeno per quanto riguarda la prima tappa.
Anche per sgombrare il tavolo da idee preconcette, è di aiuto illustrare brevemente in cosa consista il Sinodo, e cosa comporti per tutta la Chiesa e per ogni Chiesa particolare. Anzitutto, non si tratta di un «Sinodo sul Sinodo», o di un «Sinodo sulla sinodalità»: le eccessive semplificazioni sono sempre nemiche della verità, e i mezzi di comunicazione praticano volentieri la semplificazione, dando le notizie per slogan. In realtà, il Sinodo è sulla «Chiesa sinodale». Il tema affidato alla XVIa Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi è il seguente: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione». La questione sul tavolo è decisiva – come recita il titolo assegnato alla relazione – per la vita e la missione della Chiesa: la Chiesa è davvero «costitutivamente sinodale»? A tale questione siamo chiamati a rispondere tutti, chi ci crede e chi no; chi pensa che una Chiesa strutturalmente gerarchica non potrà mai essere sinodale e chi pensa che una Chiesa sinodale non contraddice la natura gerarchica della Chiesa.
Per spiegare questo, non bisogna partire dalla conseguenza, vale a dire l’articolazione del cammino sinodale in tappe, in cui sono coinvolti tutti i soggetti ecclesiali: il Popolo di Dio, il Collegio dei Vescovi, il Vescovo di Roma. Bisogna partire dalla dottrina che sta a monte, e che discende dai primi tre capitoli di Lumen gentium, la costituzione dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II. Per capire più a fondo la novità del testo, basta cogliere gli aspetti che caratterizzano i primi tre capitoli:
Nel primo capitolo si recupera la dimensione misterica della Chiesa, tipica del primo millennio: i Padri parlavano della Chiesa come comunione che ha come origine e modello la Trinità stessa. Tutti conosciamo la famosa citazione di Cipriano di Cartagine: la Chiesa è «Popolo di Dio adunato [a partire] dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo» (LG 4). Quella prospettiva ha permesso di vedere la Chiesa non solo come un’istituzione visibile, ma come «la realtà una e complessa», in cui l’elemento divino – lo Spirito santo – costituisce nell’unità organica del corpo di Cristo tutti i membri della Chiesa. Nel capitolo I sul «mistero della Chiesa» riemergono la dimensione trinitaria, quella cristologica e, dopo secoli di silenzio, quella pneumatologica; quella storico-salvifica, quella sacramentale, quella carismatica e quella escatologica. Sottolineare la dimensione escatologica, cioè quella del compimento finale nel Regno di Dio, significa dire che la Chiesa non si identifica con il Regno, ma ne costituisce in terra «il germe e l’inizio» (LG 5). Perciò non può che esistere, come dice la teologia con una formula efficace, in una perenne tensione tra «il «già e il non ancora», in stato di pellegrinaggio verso la Patria.
Nel secondo capitolo – quello sul Popolo di Dio – si rende chiaro che la Chiesa è un Popolo, il Popolo di Dio, che Lumen Gentium descrive anche come «Popolo messianico, che ha per capo Cristo, per statuto la dignità e la libertà dei figli di Dio, per legge il nuovo comandamento di amare, per fine il Regno di Dio» (LG 9). Questo Popolo che, diceva l’allora card. Ratzinger, «esiste nella forma del corpo di Cristo» (il che permette di dire anche la proposizione reciproca: la Chiesa corpo di Cristo esiste nella forma del Popolo di Dio), è, per definizione, un «Popolo in cammino»: «Come già Israele secondo la carne in cammino nel deserto veniva chiamato Chiesa di Dio, così pure il nuovo Israele che avanza nel tempo alla ricerca della città futura e stabile, si chiama Chiesa di Cristo» (LG 9). In questo cammino, se la meta è chiara, le strade sono tante; anzi, non esiste strada se non quella che si disegna con i propri passi. Ed è così decisiva la scelta della strada da percorrere, che bisogna decidere insieme; e per decidere insieme, bisogna ascoltarsi. L’affermazione vale a maggior ragione se diciamo che la via è Cristo (Gv 14, 6). Seguirlo è ascoltare la sua Parola, il Vangelo della nostra salvezza, che si rende più chiaro nell’ascolto della sua azione efficace dentro la vita concreta del Popolo di Dio in cammino.
Questa è la sinodalità: camminare insieme, sulla base di un ascolto previo alla decisione – ascolto della voce dello Spirito nell’ascolto degli altri –, che rende tutti concordi sulla strada da fare. Il papa, nel discorso del 17 ottobre 2015, nel 50° dell’istituzione del Sinodo, ha spiegato che «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto… È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo «Spirito della verità» (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli «dice alle Chiese» (Ap 2,7)». Ha poi aggiunto che «il Sinodo dei Vescovi è il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli della vita della Chiesa. Il cammino sinodale inizia ascoltando il Popolo, che «pure partecipa alla funzione profetica di Cristo», secondo un principio caro alla Chiesa del primo millennio: «Quod omnes tangit ab omnibus tractari debet». Il cammino del Sinodo prosegue ascoltando i Pastori… Infine, il cammino sinodale culmina nell’ascolto del Vescovo di Roma, chiamato a pronunciarsi come «Pastore e Dottore di tutti i cristiani».
L’ascolto del Popolo di Dio si fonda nel sensus fidei, vale a dire quella forma di conoscenza del Popolo santo di Dio, fondata sul fatto che ogni battezzato ha ricevuto lo Spirito. I Padri della Chiesa dicevano che la totalità dei fedeli «non può sbagliarsi nel credere», in forza dello Spirito che comunica quell’«istinto della fede» che è tanto più acuto quanto più è viva la vita di fede. Su questa dottrina Pio IX e Pio XII hanno fondato la definizione dei dogmi mariani; su questa dottrina il Sinodo fonda la consultazione del Popolo di Dio (cioè di tutti i battezzati, vescovi e preti compresi) come primo atto del cammino sinodale. Da questo ascolto deriva il discernimento, affidato a quanti hanno ricevuto tale compito in forza della loro funzione di Pastori del Popolo cristiano: i vescovi. Dal dinamismo continuo di ascolto e discernimento la Chiesa impara a camminare sotto la guida dello Spirito.
Tutto questo va prendendo forma nel processo sinodale aperto il 10 ottobre in San Pietro e il 17 in ogni diocesi. La doppia apertura, a livello della Chiesa universale e delle Chiese particolari, mostra che «nelle e a partire dalle Chiese particolari esiste l’una e unica Chiesa locale» (LG 23). In questo modo tutta la Chiesa e tutti nella Chiesa sono implicati nel processo sinodale, ciascuno secondo la sua appartenenza e la sua funzione nel corpo ecclesiale.
La prima fase vedrà peraltro coincidere il Sinodo della Chiesa universale e il Cammino sinodale della Chiesa italiana. Per quanto distinti (è stato infatti necessario “armonizzare” la prima tappa, che sostanzialmente coinciderà a livello di tempo), i due cammini non sono una sovrapposizione. Perché la finalità del Sinodo non è un qualche sondaggio demoscopico, o l’organizzazione degli stati generali della Chiesa: è avviare, attraverso l’ascolto, la consapevolezza che la Chiesa, in ragione della sua stessa natura, è sinodale. E a sviluppare le forme, gli stili, le dinamiche ecclesiali in questa logica. Si tratta di un cammino appena iniziato, che domanda a tutti coraggio nel fare la propria parte perché la Chiesa sia consapevolmente questo Popolo in cammino verso il Regno.